Sergio Limonta
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L'Abitazione Di Giovanni Carlo E Giuseppe Bravi
(1970)
L'Abitazione Di Giovanni Carlo E Giuseppe Bravi
Persone
#terno d'isola
 
Aggiornata 3 anni

Nato a Terno nel secolo dei lumi, anno 1781, Giovanni Carlo Francesco Maria Bravi si era formato nel culto delle tradizioni cattoliche e intellettuali di famiglia. Nel corso della lunga vita, egli mai ha cessato di comportarsi come orgoglioso erede del patrimonio culturale dell’illuminismo lombardo, probabilmente come lo furono il padre, Francesco Andrea, e la nobile madre, Francesca Borella. Nonostante abbia lasciato dietro di sé una mole di documenti prodotti al tempo delle cariche di primo municipale, sindaco, tecnico comunale, geometra ministeriale del censo, revisore dei conti, deputato e ingegnere, non ci sono certezze per affermare che, questo penultimo erede maschio della famiglia Bravi Morando, non abbia consumato la sua esistenza negli abusi e nello spreco di casta. Certamente non ha vivacchiato sulla rendita patrimoniale come altri hanno fatto in un’epoca di tragiche incertezze e profonde ingiustizie sociali. Certamente non un parassita della società del tempo perché egli era un uomo con profonda moralità; tuttavia, per il contesto storico, un progressista con un mix di cultura laica e cattolica. L’educazione scolastica ricevuta nel Collegio Mariano, dove ad insegnare le matematiche e la fisica c’erano congiuntamente due professori illuminati, dal calibro del Mascheroni e del Tadini), per il disegno architettonico il Lucchini, per geometria e algebra il Mozzoni, non contrastava, anzi, rilanciava quell’indirizzo intellettuale ove regnavano le istanze libertarie, antitiranniche e razionaliste. Non solo questo si coglie tra le righe dei molteplici atti archiviati nei sotterranei del Comune di Terno poiché egli fu un imprenditore concreto, un uomo del fare, un professionista affermato a livello provinciale, seppur eterno ragazzo indisciplinato con la profonda passione politica acquisita negli anni di radicale trasformazione sociale. L’intuibile sostanza giacobina, che si coglie dalle sue profonde convinzioni, non contrastava mai con l’aggancio fra istanze illuministiche e religione, facendo delle une e dell’altra un veicolo di polemica locale contro il menefreghismo imperante nei primi decenni della Restaurazione e poi contro la violenza e il sopruso, il filisteismo e l’erudizione ampollosa, l’intolleranza e il sentimentalismo tipico dell’Ottocento romantico riscontrabile in risoluti potentati locali recuperati dalla restaurazione. Anche durante la sterile vecchiaia, oramai malato e stanco, credeva più che mai nella forza della ragione, nella cultura di progresso intesa come stimolo per l’attualità della scienza, dei diritti civili e della libertà d’espressione. Dal resto in questa cattolicissima provincia bergamasca, anche durante gli anni di tacita preparazione insurrezionale al fine di essere liberata dalla dominazione austriaca, era ancora viva e profonda l’impronta culturale della Serenissima, la millenaria repubblica laica che fu gelosa delle sue libertà, ma rispettosa dei valori religiosi. Ma la fede laica e progressista per il giovane Giovanni Carlo, di famiglia cattolica, fu il presupposto per l’ancorato intellettualismo con l’aristocratica famiglia della moglie Maria. Una nobiltà già imborghesita quella dei Bottaini de' Capitani di Sovere, nei fatti e anche nei desideri. Gia da decenni in lotta contro arcaici privilegi feudali e vecchie ideologie che difendevano come diritto inviolabile l’antico stato di cose principesco-assolutista. Le famiglie imborghesite, come quelle dei Bottaini e dei Bravi, senza essere divenute anticlericale in termini assoluti, sono le fautrici della decadenza del capitalismo feudale, sia dello Stato, della nobiltà e del clero, intesi come principali detentori di beni e d’iniziative economiche. Scelte pragmatiche che hanno diffuso cultura democratica e ideologie liberiste per irrobustire la borghesia gia esistente e per sostenere la sua ascesa in campo economico prima e dopo l’unità italiana. Anche il figlio Giuseppe, indirizzato con sani e pragmatici principi dalla cattolica e ricca famiglia borghese, umanamente sensibile, disciplinato nel carattere che ha probabilmente ereditato dalla madre con l’intelligenza superiore e tatto squisitamente aristocratico, dal padre il segno adamantino e la ferrea volontà, moderato nella formazione culturale poiché acquisita in anni di studi sotto il controllo della restaurazione imperante, è tutto chino sul lavoro burocratico e in età matura, come se fosse una missione, un sacro dovere, si troverà orgogliosamente coinvolto in complesse vicende amministrative e risorgimentali nel ruolo di primo cittadino. Un moderato in lotta per l’identità e la libertà nazionale. Un uomo, capace di cogliere i segni dei tempi, che si sentirà chiamato e sospinto più che mai all’azione concreta, metodica, costruttiva, come lo fu da imprenditore e saggio amministratore parrocchiale. Certo, per un borghese acculturato essere illuminati e progressisti in un’epoca dominata da un rigore arcaico, chiusa nella superstizione e appesantita dal romanticismo, bastava poco; significava semplicemente elaborare la logica, guardare in faccia la realtà, uscire dall’immobilismo della credenza irrazionale e dall’imposizione sociale senza confronto critico e costruttivo. Giovanni Carlo e Giuseppe, padre e figlio, nel solco tradizionale che spetta ai capostipiti, erano comunque attenti a fruttare i proventi della filanda e del loro patrimonio come se questo fosse un sacro dovere verso la società e, soprattutto, verso la generazione Bravi Morando. Una ricchezza, eventualmente accresciuta, da trasferire in successione ad un futuro discendente che avrebbe dato certezza di continuità della stirpe. Un erede che Giovanni Carlo avrà certamente atteso da Giuseppe, o in extremis dalla feconda vita coniugale di Teresa e dalle quattro nipoti Rota Rossi. Nonostante l’incertezza di continuità del proprio sangue, con l’età e l’angoscia che avanzavano e la speranza dell’erede diretto che si allontanava, entrambi non hanno avuto un minimo sentore di dilapidare il patrimonio, o meglio, divertirsi con l’enorme opportunità ricevuta in famiglia e dalle fortunate circostanze economiche. Tanto meno hanno manifestato atteggiamenti devastatori alla Mazzarò verghiano; quel principe, un pò kafkiano, che distruggeva le sue cose prima di morire poiché non voleva lasciare nulla agli altri: “Quando gli dissero che era tempo di lasciare la roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: roba mia, vienitemi con me”. Tutt’altro; la condotta finale e la stessa idea di fondazione dell’Opera Pia Bravi, pone sul fronte opposto la loro profonda e cristiana moralità. Un atteggiamento moralistico che è tipico nella borghesia cattolica bergamsca fin dal tempo della grande Riforma del Concilio di Trento. Un modo di manifestare la fede e di concepire l’esistenza terrena, nell’attesa di una più serena ed eterna vita, che ci ha consegnato la fondazione “paternalistica” dell’opera pia e rende onore a quella concreta Carità, di santa memoria pastorale, verso gli altri. Ossia verso i tantissimi poveri di Terno. Quella manifestazione di povertà estrema che Giuseppe e Giovanni Carlo, hanno ben conosciuto nella loro lunga vita all’interno della comunità rurale di Terno. Anche la dimora signorile, il Palazzo Bravi, dove padre e figlio hanno consumato gran parte dell’esistenza, come abbiamo potuto costatare prima del recente restauro, era un semplice ritorno alla misura e al decoro dei classici. Uno stile artistico, e di vita, dal gusto sobrio e austero come tanto piaceva ai due borghesi: purezza di linee, sobrietà nei colori, essenzialità dell’ornato, così come gli illuminati vedevano qual trionfo della ragione contro gli eccessi dell’imperante rococò, che era roba da re, nobili, principi della Chiesa. Ad ogni modo, essendo l’uno ingegnere e l’altro ragioniere, era l’ideale attuazione dell’armonia e della proporzione architettonica. Non c’è dubbio che il loro vissuto nella modesta dimora signorile, seppur serviti e riveriti da personale di servizio a disposizione, non era il meglio di quanto potevano permettersi, anche a livello locale, dalla loro estrazione sociale, disposizione economica, formazione culturale e patrimonio intellettivo. Possiamo altresì intuire le richieste di Giovanni Carlo a Giuseppe, unico figlio maschio a lui sopravissuto, per il suo congiungersi in giuste nozze e dare continuità alla stirpe. Ma questo, come sappiamo, non è stato scritto nel libro del destino. Con la morte di Giovanni Carlo scomparve dalla società del tempo, dalla scena politica, sociale e amministrativa di Terno, un personaggio singolare. Forse un uomo troppo innovatore per il quieto vivere del provinciale villaggio rurale. Un uomo certamente ricco di risorse e dalla ferrea volontà di smantellare i residui del vecchio potere blasonato che da tanti era riconosciuto, giustamente, com’elemento limitativo alla crescita economica e sociale di un popolo libero e progredito: di un’Italia che non doveva essere una semplice espressione geografica, ma uno Stato libero e indipendente. Terno dovrebbe essere orgoglioso di aver dato i natali ad un personaggio che, di la delle debolezze presenti in ogni essere umano, ha avuto intuito e coraggio nello spingere la società civile a modernizzarsi in anni difficili, creare i presupposti per accelerare i tempi di una mentalità aperta e al pari passo con il progresso. Insomma quando un uomo, qualunque sia la sua estrazione sociale e il modo di pensare e agire, si mette a disposizione degli altri, della Cosa pubblica, talvolta anche solo con una piccola parte del suo tempo di vita perché convinto di dare il meglio di sé, senza dubbio merita ammirazione e gran rispetto.