Primavera dopo la guerra

La primavera arriva per tutti, e a volte lo fa quando meno te l’aspetti. Non sappiamo con esattezza dove è stata scattata la foto di oggi, che ritrae uno dei capisaldi della Resistenza bergamasca, Giovanni Brasi (“Montagna”), comandante del gruppo partigiano “La Resistenza nel Loverese”: i profili dei monti che si intravedono perdendosi verso il cielo mi sono familiari, ma proprio non riesco a riconoscerli.

Da altri segni riconosco la primavera, che ogni anno, in pochi giorni, spazza via l’inverno come una forza silenziosa: ai piedi del nostro partigiano, i crocus bianchi spuntano prepotenti sui prati appena lasciati liberi dalla neve, ancora umidi e assonnati; e alle sue spalle altra neve, la poca rimasta, scivola lenta nei valloni a sud, dove il sole potrà scioglierla in tutta calma.

Ma in questa foto, in altri segni riconosco la guerra: gli abiti militari, la mitraglietta in spalla, la cintura forse piena di munizioni.

Quella guerra che la primavera del ’45 spazzò via come fosse un lungo inverno, ma più triste e più lungo di tutti gli altri. E che lasciò dietro di sé, nei mesi precedenti e successivi alla Liberazione, strascichi di sangue da ambo le parti: vendette, rappresaglie, stragi.

La nostra foto è del 1944/45: “Montagna” aveva già visto spazzar via tredici dei suoi compagni, rastrellati dai nazifascisti sui monti del Sebino e fucilati il 22 dicembre 1943. Da allora il gruppo cambiò nome, divenendo 53ª Brigata Garibaldi Tredici Martiri.

Il 17 novembre 1944 la Brigata, insediata alla Malga Lunga (sopra il paese di Sovere), viene attaccata duramente da un contingente della Legione Tagliamento; due partigiani rimangono uccisi, altri sette sono costretti alla resa e poi fucilati. Lo stesso giorno venivano fucilati presso il cimitero di Sovere i due fratelli Pellegrini. Ma queste sono pur sempre azioni di guerra.

Ma il 27 aprile 1945, a soli due giorni dalla Liberazione, a Endine vengono trucidate dai nazisti sette persone, la maggior parte civili, per rappresaglia verso un tentativo di attacco alla loro colonna che avanzava in ritirata. Il giorno dopo, a Rovetta in Val Seriana, quarantatrè soldati della Legione Tagliamento che si erano consegnati ai rappresentanti del CLN locale con la garanzia dei diritti da prigionieri di guerra furono fucilati da un gruppo di partigiani di varie brigate, con l’ “accusa” di essere repubblichini; lo erano, ma si erano arresi. La sera dello stesso giorno, a Schilpario (Val di Scalve), si consuma una strage analoga ma al contrario: ad essere trucidato è un gruppo di partigiani in perlustrazione, accerchiato da militi della Tagliamento di cui dovevano accettare la resa e che invece li hanno attaccati uccidendone dodici.

La primavera arriva per tutti, ma per alcuni, per tanti, non è mai arrivata. 

Forse questa è una delle certezze da cui ripartire per guardare verso il futuro; davanti a questa certezza anche la tentazione di rileggere la storia in termini di buoni e cattivi, contando i morti da una parte e dall’altra, smette di avere senso.

Per i ragazzi del 1899, richiamati all’ultimo come carne da cannone nella Grande Guerra, la primavera si spezzò sul fiorire dell’adolescenza. E per chi sopravvisse, altre guerre da cui forse si ritorna e forse no. In cui combattere per la patria, ma la patria che cos’è?; forse

Gli uomini sono sempre stati mandati alla guerra circondati e sospinti da un’aura di onore, sacrificio, gloria; ma questi sono concetti calati dall’alto, su una massa di povera gente che per la maggior parte non voleva altro che vivere dignitosamente la propria vita.

Moltissimi tra le file partigiane avevano vissuto campi di battaglia terribili e assurdi; Luigi Macario e Palmiro Faccardi, che con “Montagna” costituirono la Brigata, erano reduci di Russia.

Esaltati e interventisti raramente provenivano dal “mondo dei vinti”, quello che l’illuminante omonimo libro di Nuto Revelli (1977) ritrae sotto forma di centinaia di testimonianze raccolte tra i contadini piemontesi, di quella generazione che di guerre ne ha fatte almeno due.

“Avevo nemmeno diciotto anni, non mi facevo ancora nemmeno la barba, e mi chiamano a fare il soldato negli alpini. […] Gli ufficiali ci parlavano della patria. Noialtri quando potevamo avere la licenza e venire a casa la patria era quella lì. Poi è venuta la guerra contro la Francia, la guerra contro la Grecia, la guerra contro la Russia. Io ancora oggi non so dov’è la Russia, sono rimasto prigioniero là: la Russia è qui nelle mie costole, è qui nella mia salute rovinata per sempre”.

Forse solo questi racconti potranno salvarci dalla retorica su guerra, pace, liberazione.

Forse per comprendere davvero la storia servono parole vive come queste, geograficamente lontane dalla nostra foto ma universali come un grido di dolore.

Forse non ci resta che leggerle e rileggerle, e interrogarci senza posa; con la speranza che ogni primavera sia sempre dolce e lieve, e portatrice di pace.

Carlotta
Carlotta Cortese

Tutti in piazza

New York, Berlino, Bergamo

La Liberazione lunga